Mostra / Evento
Brezza di mare
Presentazione critica di Irene Navarra
Letture di Alessandra Rea

 
 

La brezza di mare e tre donne. Tre artiste che respirano magie e le raccontano. Facendosi vento e mare. Un tema, quindi, vissuto dalla particolare prospettiva della dimensione femminile che diventa mito nell’immaginario collettivo perché la donna, per una sorta di ri-genesi che la rende unica:
 

Fu ritrovata sulla rena pallida,
le gote rese alabastrine
dalla rugiada tersa dell’aurora.

 

Traslucida perla dell’Olimpo
- ma non più Regina -
passava le dita giocoliere
tra onde di capelli
raggianti arcobaleno.

 

La vide e pianse il Dio immortale.
Urlò cristalli eterni
e vomitò nastri d’argento.

 

Poi la lasciò.
 

E lei, scelta coscientemente
dalla Terra, fu incatenata
al limaccioso mondo
sempre uguale.

 

Le donne sono femmine di dei
sacrificate con dolore all'uomo.

 

(Irene Navarra, da L'ultima estate dell'attesa, in Dalla parte del Minotauro, 2006)


Vilma Canton, Anna Lucia Clausero e Silvia Wehrenfennig coniugano pertanto la loro natura quotidiana di creature legate al ciclo dell’essere ciò che il mondo vuole agli slanci di quanto l’anima pretende con urgenza, ammantando l’ispirazione ora di echi e richiami agli spazi ancestrali degli inizi, ora di esigenze profondamente culturali. Quelle scaturenti dal nostro patrimonio, genetico ormai, perché nutrito ed educato alla sorgente dello sguardo profondo. Così le immagini si compongono, talvolta con spontaneità, talaltra per piani dall’impianto concettuale vasto, in cui, a detta delle artefici, spesso i soggetti si vanno facendo, quasi una forza speciale guidasse la loro mani. Pittura a olio, ad acrilico, ad acquerello, ceramica tradizionale e raku sono le emanazioni della loro potente fantasia. Ne nascono oggetti, metaforici per Vilma Canton che, al di sotto delle strutture lisce e pulite, nasconde un subliminale riferimento al connotato sempre dolente del vivere; più elaborati per Anna Lucia Clausero volta preferibilmente a ricreare forme sinuose anche dei particolari; severi nell’enunciazione per Silvia Weherenfennig, nitida sempre, sia quando la bozza progettuale delle opere si colloca nell’ambito della Secessione Viennese facendo propria la poetica del Bello e del Vero, sia quando affronta la raffinata eleganza delle tecniche ceramiche orientali.
Vilma, Anna Lucia e Silvia: tre universi differenti. Uniti però dalla matrice del clima culturale in cui si sono riconosciute e temprate come artiste.

 

Vilma Canton
Il suo percorso artistico è complesso e particolare. Ama la figura ma ne dissolve la specificità con un uso alternativo del colore o attraverso la parcellizzazione dello spazio di campitura oppure snaturandola in sagome di burattini che si agitano nella commedia della vita con sentimenti umani, quasi intrecciassero storie dolenti. Il tutto in pannelli di frequente costruiti a sezioni intercambiabili. Ciò a significare che l’uomo non è artefice del proprio destino. Una contingenza qualsiasi può scombinare il progetto apparentemente più sicuro nel casuale gioco delle parti. Così Vilma concepisce quinte sceniche dorate contrapposte a sezioni scure da cui emergono volti di bimbi, tanto rifiniti da sembrare sovrareali: bambolotti dalle guance levigate, anatomie di vita vera affiorante da paraventi teatrali.
Destrutturare e ristrutturare per capire insomma.
Rimettere insieme i pezzi sparsi di coscienza, anche sociale, che affiorano in volti e corpi spesso affranti. C’è inoltre la lezione del decorativismo secessionista viennese in alcune sue tele. Rigorosamente a olio, con tecnica a pennello, a spatola, certe volte nella versione a togliere, rarefacendo il colore come sfondo di strutture più corpose. L’astrarre e il figurare per lei si coniuga nell’allegoria. Che approda al Simbolo e ci porta oltre il fisico, in una serie di trasformazioni dove tutto è possibile, avendo radici imperscrutabili. Così come imperscrutabile è sempre la ragione del dolore. Questa - credo - sia la chiave per interpretare i due grandi oli dell’attuale mostra (Metamorfosi 1 e 2). La brezza accarezza il mare che si frange in ondine iridescenti. Spettacolo meraviglioso e appagante, questo. Superficiale però. Superficiale. Il mondo marino di Vilma sprofonda. Indaga gli abissi. Perché, forse, là c’è una risposta. Forme altre (da non banalizzarsi nelle familiari meduse!) fluttuano in tentacoli eterei che cercano la solidità del fondo. Vi si ancorano quasi. A fare dei villi le radici di una nuova vita mutante. In una luce soffusa da crepuscolo remoto. Crepuscolo, perché d’Alba e di Tramonto assieme. Inizio e Fine, dunque. Nel ventre del mare. Come spazio inesplorato dove tutto è possibile. Persino il trovare una formula taumaturgica che ci salvi dalla barbarie. Metafore, allora, questi esseri a metà tra sostanza animale e vegetale. Metafore di salvezza che assurgono a emblema di un’instancabile inchiesta. Un po’ come il Colombre di Buzzati. Strano, terrifico per il protagonista del racconto omonimo, da stornare, evitare, fuggire. Finché lo si scopre portatore di messaggio positivo e di una rara perla che esaudisce tutti i desideri di chi eventualmente la possieda. Perciò: nella teca liquida del mare profondo, a cui l’uomo non giunge se non in straordinario volo immaginativo, può esserci il varco per nuove timbriche e grammatiche esistenziali.
Quelle che anche il Marumano ceramico di Vilma esprime. In forme morbide. Le figurine lavorate a tutto tondo hanno gamme cromatiche viranti dalle tinte della creta al grigio, all’azzurro, al blu, al piombo e al bianco puro. Emersione progressiva e rinascita, i due temi conduttori del ciclo. Sul filo dell’abbandono reciproco. Per sostegno, per consolazione, per sollievo. Due sole non sono in coppia. Chiara l’una e scura l’altra. Due esseri nuovi sorti dal dolore e pronti a guardare il cielo con le proprie creature che fanno capolino da una sorta di marsupio: già nate ma ancora protette. Così, il miracolo del mare profondo sembra compiuto: una progenie più consapevole si è enucleata dal magma del dolore purificandosi alla sua fonte .

 

Anna Lucia Clausero
Anna Lucia dipinge privilegiando la tecnica dell'acrilico per l’immediatezza di esecuzione che non concede ripensamenti, e dell’acquerello per la delicata luminosità.
Dal ciclo Gusci del 2007 derivano i manufatti e i dipinti di questa mostra. Gusci come oggetti quasi di culto, scaturigini del mare e delle sue varianti.
La domanda che immagino nell’artista al momento della creazione è: si può raccontare il mare come elemento liquido e culla di vita? L’operazione richiede la capacità di coniugare due versanti del conoscere apparentemente opposti. Conoscere razionalmente, ponendo come base l’esperienza, e intuire. Figurare e astrarre insomma, per dirla in termini specifici. Cogliere al di là del concreto, ma facendo del concreto un centro propulsore. Ecco che, da un’orecchia di San Pietro nascono onde e vortici come stringhe avvolgenti sullo sfondo blu cupo di un ambiente liquido appena accennato. Ecco che, da una conchiglia si mostra una fanciulla mentre flussi apparentemente senza fine entrano/escono da altri involucri non più scarti insulsi ma portatori essi stessi di movimenti senza fine che una mano, peraltro impotente, cerca di dominare. E ciò, nel ciclo continuo della rigenerazione immaginifica. Senza giustapposizione astratta di campiture e modulazioni ma come sviluppo di un’unica linea che, incontrandosi in percorsi complessi e istintivi, giunge a coprire un’intera superficie. Se andiamo perciò a fondo del dettato artistico di Anna Lucia scopriamo ben di più di quanto si possa supporre. In termini di linguaggio espressivo, intendo. Un linearismo delicato si è sicuramente impresso nel suo immaginario. Gusci non solo come filtri amorfi, allora. Li definirei delle fibule sapientemente collocate a fissare lo snodarsi perpetuo di cui le tele sono invase. Ebbene, la domanda che anch’io mi sono fatta con l’artista è assolta. In bilico sul filo di una lettura tra tangibile ed etereo.
Così per le ceramiche. Sinuosità morbide che tracciano la persistenza del classico, il fermo riallacciarsi a una tradizione mediterranea che è garanzia di continuità. E voli onirici su una foglia galleggiante all’ombra di una farfalla.

 

Silvia Weherenfennig
Silvia imprime alla creta un suggello di luce che si fa gioia scivolando sulla superficie lucida degli smalti. Lei predilige strutture e colori essenziali senza concedere nulla all’eccesso. Così, imprigiona il mare in conchiglie come doni sonori di risacca, in vasi-valva di cappasanta che vorresti tenere tra le mani, in anemoni di cui ti adorneresti. I manufatti raku poi, in particolare, bilanciano le sfumature delle tinte fredde con lo splendore misurato dei metalli preziosi, ben adeguandosi ai dettami della filosofia zen che vuole l’autenticità fenomenica per restituire suggestione. La ceramica raku, di matrice giapponese, come il genere poetico dell’haiku suo corrispondente lirico, è espressione di quiete nella solitudine, di distacco e pace contemplativa. Al di là di ogni rammarico nostalgico. Nell'improvviso uscire da un momento di indolente grigiore, vincendo la malinconia con una punta di tristezza subito contenuta per l’inevitabile percezione della transitorietà di ciò che siamo, del mutare caduco del tempo, dell'inutilità dell'affanno. Consapevolmente certi del divenire. Condizione, questa, che ci porta ad apprezzare le quotidiane, comuni cose perché irripetibili. E lo stupore suscitato anche da piccoli eventi, il senso di magia che il nostro animo avverte, sono costitutivi delle opere raku di Silvia, nitide nella politezza minimalista delle forme, nelle tinte degli ossidi e con i nitrati a rivelare appena un segreto indicibile. Come nell’universo naturale in cui tutto ha anima e voce: ora dolce ora amara, ora acuta ora tenue. E ciò, accanto ai miti della Mitteleuropa, tanto spontanei nell’ispirazione dell’artefice. Il suo tratto ama, infatti, le contaminazioni, frutto di un'incessante curiositas che risulta carattere sostanziale del suo dettato, sempre teso alla ricerca di nuovi motivi, poveri oppure indotti da riflessione culturale e studio dei grandi maestri. Silvia sceglie linee pure e un linguaggio scabro, ma non disdegna il floreale. Per cui, se facciamo nostro quanto lo straordinario architetto e designer Giò Ponti sosteneva creando ceramica - all’inizio in armonia con i dettami della Secessione viennese -, si può affermare che: “la decorazione tradizionale e l’arte moderna non sono incompatibili”. Silvia ne è perfettamente conscia. Ebbene, l'entusiasmo della scoperta connota il suo operare, che procede apponendo tocchi personali a ogni prodotto, sia esso un piatto-pianta marina, un contenitore-resto fossile con i segni del tempo o un pannello a ramages fluttuanti in acque limpide. Nel fervore dell’invenzione. Oltre qualsiasi contingenza.


Irene Navarra / Quaderni di critica / Artemisia Eventi Arte / Brezza di mare /
17 settembre 2011