Viktor e il suo doppio di Fulvio Comin
Viktor e il suo doppio narra di fatti e personaggi possibili sullo sfondo di luoghi reali dell’Italia e della Cecoslovacchia (Dragona/Fregona e altri paesi del Trevigiano, l’Altipiano del Cansiglio, Praga), in un arco di tempo che copre la parabola del Novecento nei suoi eventi epocali.
Vero storico e invenzione vi si intessono a formare una trama che si snoda per fascinazioni progressive, agganciandoci alla lettura. Questo perché gli elementi importati dalla realtà e quelli nati dalla mente dell’autore si compenetrano, plasmando una nuova dimensione. Ecco quindi che i personaggi di pura fantasia rinforzano la loro sostanza se, in chiaroscuro, appare Mussolini, se si annuncia l’Armistizio, se i partigiani attaccano i repubblichini uscendone vincitori, o sono incalzati, perseguitati, uccisi. Ossia: quando il racconto si nutre di ricerca e creazione, di studio e voli liberi, ci proietta in un circuito credibilissimo in quanto sapientemente organizzato.
Posta questa premessa, resta da vedere a che tipo di realismo il libro si possa ascrivere.
Nel gioco usuale delle attribuzioni non si deve generalizzare. Sarebbe infatti semplicistico ingabbiare il romanzo in canoni fissi, etichettandolo con formule ovvie. Ciò che appare manifesto è la consapevolezza data da una sicura conoscenza, materiale e teorica, che consente l’interpretazione lucida di quanto avvenne in guerra, soprattutto in riferimento ai suoi capitoli più spietati. Quelli caratterizzati dalla bestialità degli abusi, dalle efferate atrocità e barbare stragi le cui motivazioni, assolutamente ordinarie, Hannah Arendt, nel suo saggio sul processo Eichmann a Gerusalemme, La banalità del male, avrebbe dimostrato essere radicate nella società come usuali e, addirittura, supposte innocenti. Uno dei personaggi di Viktor e il suo doppio, Guido Ferrari, comandante della Gnr di Dragona, a chi gli rinfaccia le nefandezze compiute chiedendogli quanti ne abbia ammazzati sotto tortura, risponde: “Io ho fatto soltanto il mio dovere”. Irma, prima attrice del romanzo, a Vittorio che le ricorda la malvagità impietosa di suo marito Guido, grida: “Faceva il suo dovere!”.
Coscienza critica, quella dell’autore, che si avvale dell'opportuna riflessione per scandagliare la psiche umana in tutte le sue componenti, anche le più deviate, avvalendosi di connotati ora naturalistico-veristici ora moderatamente eversivi, come significazioni dell'estraneità dell'uomo rispetto al mondo naturale e storico. Di taglio asettico, queste ultime, per cui Fulvio Comin non disdegna la tecnica ad accumulazione, rallentata peraltro da qualche sorprendente abbandono lirico, solo accennato e subito compresso. In ottemperanza alla peculiarità della sua severa poetica.
Considerato pertanto in tali termini il canone del romanzo, l’indole singolare del protagonista, Vittorio Rovena, si intuisce già nel prologo, rispondente a criteri di chiarezza e di palesamento parziale della materia, in particolare quando egli afferma:
“In quelle condizioni ho agito male: sì, non posso ignorarlo, ma credo di averlo fatto inconsapevolmente. Mi assaliva una tentazione che diventava sempre più forte e alla quale non sapevo resistere. Al di là della mia stranezza, che ha peggiorato le cose, credo che Dio ci abbia fatti così: neppure lui è riuscito a separare il bene dal male, perché, se lo avesse fatto, mi sarei comportato soltanto in modo giusto e adesso sarei in pace con la mia coscienza. Invece non lo ha fatto …”.
La ripetizione del verbo credere ci dice molte cose. Indica un margine di dubbio. Non vi è certezza in Vittorio/Viktor, ormai vecchio, che, alla ricerca della verità, si espone in un curioso antefatto alla narrazione vera e propria. Curioso perché in effetti si situa post factum, datato com’è al 25 settembre 1992, aprendo il flusso indotto del recupero memoriale. Ed è uno stato strano quello di Vittorio relatore di sé, reso da sprazzi di lucidità alternati a nebbia fitta, in particolare di coscienza; uno stato che sembra abito preparatorio di una nuova mutazione. Dopo la prima adolescenziale (a Dragona, luogo di nascita), la seconda della perdita/acquisizione d’identità (tra Dragona e Praga), ecco la terza: quella del ritorno al paese d’origine, abbandonato precipitosamente nel passato. Come un novello Ulisse privo di fama e colmo di sventura, quest’eroe moderno, umoristico in quanto vittima di un esilio autoimposto e dei suoi stessi mostri, volge i passi a ritroso. E così il racconto del nascere in lui di turbamenti non del tutto definiti prende l’abbrivio, dipanandosi dal momento in cui il destino si rivela compagno beffardo. L’improvviso spegnersi dell’intelligenza brillante, poco prima degli esami di maturità, preclusi proprio per ciò, accende una miccia poderosa. Fonde infatti il discrimine tra il bene e il male. Che, d’altronde, neppure Dio potrebbe separare avendoli pensati insiti alle sue creature. Niente di più naturale dunque per Vittorio, se non l'accettarli nella loro necessità.
Solo dopo, a cose fatte – e il mistero pesa su di esse non lasciando filtrare nulla -, solo dopo: il senso di colpa, la fuga a Praga con un piccolo gruzzolo cucito dentro la giacca, la nuova identità.
E, a distanza di anni, il rientro a Dragona.
E Jalta, Jaroslav, il ricordo riaffiorante di Irma, il Caffè Centrale, il negozio di Gaspare, gli spettri di un tempo con qualche larva meno inconsistente e altre di cui non rimane nemmeno un sospiro.
Notazioni, queste, spiattellate nel prologo in modo tale che si ha l’impressione di tenere la storia in pugno. Per un effetto chimerico però, visto che l’autore trasfigura la realtà tramite la diretta testimonianza di Vittorio, qui anche narratore. Quando poi il mosaico inizia a comporsi nel primo capitolo egli, sostituendo Vittorio, si fa inventore affatto attendibile, quasi scaturisse dalla coscienza della sua creatura, prima annullata nel rifiuto di ogni morale, poi in riscatto purificatorio. E ciò senza intervenire mai in prima persona, bensì raccogliendo tracce, elaborandole - sempre dietro le quinte -, pronto ad annodare spezzare riallacciare fili, gettare indizi intriganti. Come la notizia di quel cadavere di donna trovato nel cimitero di un paese alle pendici dell’altipiano del Cansiglio. Così, le vicende premono, piano piano appaiono, ben diverse però da quanto un sistema di significato solamente realista sa offrire.
Certo è che il demiurgo-artista, in filigrana tra le righe, si permette molto. Spostando di frequente la focalizzazione sin dai primi capitoli, fa nascere Praga, anzi il ventre di Praga, con le sue strade più degradate al passaggio dal regime comunista a quello democratico; fa irrompere sulla scena in una manciata noncurante : Viktor, Jalta Jaroslav, il filosofo popolare Karel con la sua pratica all’adattamento e i suoi cani bevitori. Il tutto in una sorta di itinerario sofferto da un locale all’altro, tra un bicchiere di vino bianco e qualche cicchetto di Becherovka, scandito dallo sferragliare dei tram, nel naufragio di un’esistenza che si era annunciata splendida se non fosse stato per una donna.
Nell’evolversi di destini paralleli, che è connotato precipuo del libro, i vari filoni narrativi sono orchestrati alla perfezione, per l’esigenza di sviluppare alcuni elementi, facendoli procedere per tratti più o meno lunghi verso lo sbocco finale in cui convergeranno a incastro i temi fondanti del romanzo. Tra di essi, quello della donna risulta centrale, connesso com’è al nascere delle inquietudini nel giovane Vittorio. La donna che lo ama incondizionatamente (Mira, la madre), ma poi lo rifiuta, e la donna che lo attira, lo circuisce per calcolo indotto, lo respinge (la diciassettenne Irma, anagramma peraltro di Mira), sono i fulcri della vicenda, nodali ma non interagenti. In mezzo a loro si staglia Vittorio fanciullo che ascolta in sé pulsioni diverse, talvolta patologiche, di amore esclusivo-gelosia-odio per la madre, curiosità-attrazione-eccitazione per la ragazza dell’immaginario sentimentale: due facce della stessa medaglia nel suo fragile subconscio di ragazzo dall’anima incrinata. Quando entrerà in scena l’antagonista Guido Ferrari, il ritratto di Vittorio assumerà pieghe ancora più incoerenti. L'invidia prenderà il sopravvento in tale grado da restituircelo indifendibile per la sua sventatezza, foriera di gravi conseguenze agli attori del dramma in caduta rovinosa verso la catastrofe. Una banderuola pertanto Vittorio, preda di raptus che scaturiscono da un volontarismo senza barlume logico di effettualità. Velleitario all’ennesima potenza, insomma. Devastante per sé e per i malcapitati nel suo raggio d’azione.
Accanto a Mira e Irma appare anche la madre di quest’ultima, Nilde, la levatrice del paese energica e volitiva, fascista fino al midollo, allettatrice dissimulata di Vittorio (probabile buon partito per la figlia, anche se più giovane di lei) in prima battuta, poi spezzatrice del ragazzo "fuori di testa", quando all’orizzonte di Irma appare Guido, il giusto buon partito.
Persino in Jalta, la prostituta amica-amante di Vittorio degli anni di Praga e oltre, una parvenza opposta di nostalgia e dolcezza occhieggia da dietro la sua vita, venduta con disincanto a chi può comprarla per un prezzo adeguato.
Segno distintivo comune a tutti questi personaggi femminili è allora il fatto di essere bifronti, di avere cioè due aspetti che si sovrappongono, talvolta quasi confondendosi, e completando un panorama multisfaccettato, quale in fondo può essere solo il reale. Bifrontismo in loro tuttavia, distinto dal concetto autentico di doppio giacché solo in Viktor, malato cronico di disadattamento al vivere vuoi per una causa vuoi per un’altra, la divisione dell’io è netta, univoca. Finché non affiora dal passato il fantasma di quel corpo di donna, sepolto sotto strati di profonda dimenticanza.
Nel sistema di forze del libro la morte - della madre prima e del padre poi - risulta un altro tema, evidente sì ma marginale, o solo pretesto per altri, aprendo, come fa, il campo alla malattia. E a questo punto risulta chiaro l’innesto letterario evoluto dell’eroe deviante per affezioni nevrotiche o psicotiche: malinconia, noia, isterismo, fissazioni, fobie. Malattie di cultura, frutto di conflitto tra soggezione alle norme sociali e diniego istintivo delle medesime, essendo la famiglia l’ambiente primario di formazione dell’individuo. Proprio qui le nevrosi nascono, si alimentano e trovano spesso nella figura del padre il loro sfogo compulsivo. A lui Vittorio attribuisce l’allontanamento dalla madre, che accetta il distacco forzato per obbligo coniugale, pur macerandosi di dolore. La perdita di Mira è probabilmente l’origine del suo disagio. Qualcosa gli si rompe nella testa e lo inibisce. Subentrano atteggiamenti morbosi sviati solo dall’interesse sessuale per Irma che diventerà comunque maniacale.
E sullo sfondo il clima del secondo conflitto mondiale, le sue conseguenze. Con rapidi tocchi essenziali siamo catapultati nella storia. Che però scorre su Vittorio senza lasciare traccia perché in lui gli sprazzi di lucidità sono rari. L’ovatta che ha in testa lo preserva dalle preoccupazione. Così, vive. Così, agisce anche. Per impulsi staccati da qualsiasi ragione. Nell’assoluta leggerezza di un uomo in rapporto inconscio con se stesso e con la sua anima buona e malvagia assieme. Concezione, questa, che ci giustifica anche letterariamente, il tema della divisione dell’io e del doppio, inibendo illazioni sul personaggio e non permettendo di scivolare nel tranello sentimentale del definirlo colpevole o innocente.
Quando poi si delinea il quadro materiale della guerra, trionfa l’oggettivismo del racconto. Secco, scabro, essenziale nei grumi di eventi che seguirono l’Armistizio. Mimesi e ricostruzione obiettiva quindi, cronaca non contaminata da patetismi. Stessa scelta anche sul versante del sacro, che è trattato con toni descrittivi e familiari, in sintonia con la struttura stilistica limpida e col carattere generale dell’opera. D’altronde, si è già detto del rapporto di Vittorio con Dio. Quel suo carattere interrotto nella maturazione, e quindi imprigionato in una condizione deragliata, lo porta a considerare il sacro in modo infantile e utilitaristico. La sua è un’attrazione profana che tocca quanto vi è di inespresso in lui - le sue ansie, le sue turbative – ed è destinata pertanto a restare superficiale, a non avere l’imprimatur di nessun Dio, dato che Costui è un collerico alieno, un’entità X che potrebbe infuriarsi a una richiesta improvvisa. Alla velocità di un refolo dilegua qualsiasi momentanea introspezione in Vittorio, con insostenibile vacuità. Talvolta si apre uno spiraglio. Brilla un che di luce spirituale. O almeno noi lettori lo pensiamo, per restare all'istante delusi. Come ci succede anche quando Vittorio vive atmosfere naturalistiche. Fiduciosi crediamo a una partecipazione profonda, ma presto capiamo che la sua è una vita a occhi chiusi con rare interferenze sconvolgenti, come lampi di intelligenza subito spenti. Ebbene, niente lirismo e abbandono in alcuna parte del romanzo per lui che permane sempre uguale a se stesso, morboso nelle ossessioni, fino in fondo ignaro delle pieghe che gli avvenimenti potranno prendere quale effetto di parole e azioni sconsiderate. E’ l’autore invece - lo si avverte ormai affinati dalla confidenza con il suo dettato - a indulgere in qualche compiacimento paesaggistico da cui traspare una probabile emozione. Talmente effimera, però, da essere immediatamente riassorbita negli strati del microcosmo narrativo.
Il tutto a impennate scandenti un tempo intuito come durata a livello di coscienza. Si ha così: da un lato la cronologia della Storia, che si computa con i suoi parametri logici e si estende linearmente dagli anni Venti ai Novanta del Novecento; dall’altro un flusso circolare grazie al quale coesistono episodi lontani fusi alla perfezione; dall'altro ancora un'impressione a fronte del narrato, atta ad abbattere le soglie tra i diversi ordini prospettici, limando le distonie. L'intera struttura appare dunque avviluppata in una rete che richiama il tempo, lo fa ritornare ad anello, anzi, con l’ultimo anello aperto per saldarlo a quello d’inizio e perfezionare l'intreccio. E ciò avviene anche spazialmente: dall’Italia alla Cecoslovacchia, all’Austria, di nuovo all’Italia, Vittorio/Viktor, quasi alla conclusione del percorso esistenziale può riconquistare la sua identità. Ma solo dopo un’ulteriore discesa agli inferi e l’incontro con i fantasmi del passato si riapproprierà della dignità di essere uomo e definirà la partita con il destino.
“La Realtà non deve essere altro che un trampolino”, suggerisce Flaubert agli scrittori di romanzi. Se verifichiamo questo consiglio in rapporto al complesso di Viktor e il suo doppio, allora ci accorgiamo che Fulvio Comin, nell'idearlo e stenderlo, ha elaborato un gioco combinatorio di molti elementi, tali da suggerirci la mediazione tra due universi: quello della concretezza quotidiana e quello fittizio del costrutto letterario. Nella loro intersezione sta la possibilità di intendere l’opera, vivendone pienamente la vita per il tempo della lettura.
Irene Navarra / Quaderni di critica / Artemisia Eventi Letteratura / Fulvio Comin /
7 novembre 2009 ( Tra_Inganni / Festa della Cultura goriziana )