L’arte di Giorgio Fiorenzato, ovvero la materia dei sogni
Installazioni preziosissime sospese sul Ponte di Brooklyn, alitate sul Tamigi in un accendersi di metalliche albe improbabili, impigliate alla punta della Tour Eiffel fino al tramonto del sole nel cielo di Parigi. Installazioni da fusione senza crepe saldature giunte. Quasi fossero uscite dalla fucina dei Giganti della montagna nelle cui figure Pirandello rappresentò presentimenti di un mondo a venire, suggerendo il paradosso di un’arte che, per un miracolo tecnologico, si innalza ambiguamente sublime sulla massa, sopra innumeri bocche aperte in un oh di meraviglia e timore. Istintivo di fronte a oggetti sorgenti come “cattedrali” ai bordi friabili di un deserto dove imperversano morgane e fioriscono cyberfiori di lega astrale.
I gioielli creati da Giorgio Fiorenzato hanno “l’espansione propria alle infinite cose” dei versi di Baudelaire, suonano i loro concerti di cetre appese ai rami dei mirti e fatte vibrare da mani sapienti, consapevoli di magie. Non solo artefici, dunque, di un’arte demiurgica razionalmente informatrice della materia, ma anche sensuale espressione di un impegno del tutto umano. Sentiti in forma di architetture decorative, completano corpi speciali di donne che li indossano come un sigillo di nuova genetica sotto la cui forgia, per il cui calore possono in fondo credere di riuscire a penetrare i segreti degli esseri divini, di rubare un po’ del fuoco sacro. Plasmando, così, torri fantasmagoriche da contrapporre a quelle reali erette attorno al loro eterno femminino, pozzi di desideri esauditi accanto a quelli inappagati, figure geometriche con un’anima dentro di rubino fulgido di fianco a quadrature quotidiane di cerchi, strutture rigorose librate dalla terra verso l’orizzonte fino a perdersi nell’aria azzurra. Vestirsi di energia astratta e densa sostanza splendente sarebbe una buona cura contro l’anonimato della routine, un’allusione atta a corroderne la falce livellatrice, a temperare l’imposta alienazione. Oltre qualsiasi eccesso di maniera però, oltre ogni ostentazione che mortifichi con il suo sfarzo la persona. L’arte di Giorgio Fiorenzato ha tratti in armonia con una simile concezione esistenziale, indica un’etica di segni decisi e discreti allo stesso tempo. Unici. Assemblati in chiare antinomie: linee severe e la politezza lustra del lapis screziato di grazia dorata; spirali di cui non c’è punto di partenza a modellare fasce tutelari solo casualmente caotiche e, in quanto tali, forti di individualità nominale; piastre soffuse da punti-luce appena percepibili poiché evocate per estro fulmineo ma ordinate in clonazioni seriali, lamine curve attorno al nitore liscio dell’onice dove sembrano riversarsi la notte, il suo inchiostro, le sue falene riflesse; molti elementi inusitati inoltre, talvolta di un Neoclassicismo riletto in canoni contaminanti, talaltra in trafilature a sequenze aeree di tanta semplice raffinatezza da parere naturali. Elementi, questi, appena formatisi in un territorio selvaggio, e già vivi di una libertà priva di limite.
Espansa nel sogno.
(Il Sole riluce per un attimo.
Gemmano pesche di topazio da rami
apparsi col raro del turchino.
Miele dai tigli. Api sussurranti.
Luminescenze fitte
accennano
una scala.)
Il sogno ha la croccante consistenza
di un frutto vergine assaggiato nel mattino.
(Irene Navarra, E poi il sogno, in Dettagli, Edizioni della Laguna, 2005)
Irene Navarra / Quaderni di critica / Artemisia Eventi Arte / Giorgio Fiorenzato /
4 marzo 2011