La musica di Ilse Matisek ovvero il regalo delle fate
C’è una splendida tradizione diffusa nella Mitteleuropa e, soprattutto, in Boemia: ogni neonato trova nella culla un violino donatogli dalle fate. Come dire che la musica è parte intrinseca del bagaglio magico-genetico di chi ha la fortuna di nascere e formarsi là dove essa può rivelare un linguaggio che va oltre il razionale, fondando le sue matrici nell’ineffabile, in quel sentimento spirituale – il geistiges Gefühl di Federico Schlegel - raccolto nell’anima che è luogo della nostra somiglianza e unione con il Tutto. Un fluido radicato nel mistero e fonte straordinaria di ispirazione, in qualsiasi ambito di ricerca. Vigore creativo dunque, passione. E interiorità. Umbratile o smaccatamente selvaggia, nostalgica e fragile o ribelle non importa. Basta che vibri di estro unico. Le nostre terre, quelle in cui si educò la grande pianista Ilse Matisek, così sentirono l’Arte dei suoni, per un retaggio storico ben preciso: le influenze dell’Impero asburgico che, con le sue molteplici etnie, plasmò un concetto di musica come entità ideale cui contribuirono compositori di varia provenienza: gli austriaci Haydn e Mozart, il renano Beethoven, l’ungherese Liszt per fare solo qualche esempio. Il punto di fusione, inoltre, della musica tedesca fu Vienna. Per Brahms, per Mahler alla fine dell’Ottocento e oltre. Per Schönberg, Berg e Webern nel primo Novecento. Questa la temperie spirituale che respirò Ilse Matisek nella nativa Trieste. Ben diversa quindi dal clima genericamente “italiano” teso sempre all’evasione, all’evento memorabile per la cui realizzazione occorre un concorso di celebrità. In nome di un retaggio consolidato, precisamente nostrano e dalla spiccata propensione all’intrattenimento, al virtuosismo. Caratteri, questi, esportati all’estero con successo dai nostri grandi, tra cui Scarlatti, Boccherini, Clementi. E ciò, invero, per un manifestarsi diversificato nel corso dei secoli, dal Cinquecento ai primi del Novecento, quando le Avanguardie smaniarono per “salvare” l’Italia dai dettami ottocenteschi. Onore al merito. Di non lunga durata però. Vista la tendenza nazionale a rivalutare i trascorsi di disposizione ludica. Se riprendiamo adesso un’intervista di Paolo Quazzolo a Ilse Matisek risalente al 10 marzo 1994 (Meridiani del Nord Est), troviamo il tema di fondo della sua arte nel momento in cui dice, rendendo più analogico il rapporto con la realtà in virtù di una speciale forma di simbiosi: “Per poter trasmettere l’anima e il sentimento quando si suona, è necessario conoscere anche una tecnica che insegni a plasmare i tasti e, quindi, a ottenere un suono particolare”. Naturalmente qui si parla di musica in termini poetici in quanto è la stessa significazione precipua dell’atto a nutrirsi di tensione nel misurare se stesso come per folgorazioni, trasalimenti estatici, epifanie di varchi. Una confessione, quella di Ilse Matisek, che ci rivela le pieghe più intime, e assolutamente mitteleuropee, della sua sostanza di musicista, collocandola a buon diritto tra i migliori interpreti del Novecento. Senza dimenticare che fu splendida autrice di brani intensi, scritti solo per il pianoforte, senza riflessi orchestrali. Per lo più evocativamente sospesi, ora delicati e sottili nel fraseggio, ora densi di chiaroscuri. Ho ancora nella mente gli echi di un’Elegia suonata a tocchi morbidi dalla sua allieva prediletta, Michela Cuschie. Mi abbandono alle note che si effondono scaturendo dalla memoria profonda, chiudo gli occhi e immagino una mano sulla tastiera, la mano di Ilse così come venne fotografata tante volte. È affusolata, elegante, all’anulare brilla un anello con una gemma grande e pura, un rubino rosa - dice la leggenda -, incastonato in una montatura antica, un po’ elaborata. Forse un altro regalo delle fate, lasciatole accanto nella culla al momento della nascita, centoun anni fa, il 25 aprile del 1909.
Irene Navarra, in Speciale Cultura di Voce Isontina del 24 aprile 2010