Per Carlo Michelstaedter
Dalla Morte alla Vita

 
 
Il mio ennesimo ritorno a Carlo Michelstaedter questa volta inizia non dalla casa di nascita, al n.4 di Piazza Grande, non dal fiume Isonzo che conobbe il suo corpo, né da Grado, da Pirano che videro il procedere dei suoi giovani anni e ne portano ancora i segni incancellabili. Questa volta a chiamarmi è la sua tomba sterile, nel cimitero di Valdirose, abbracciata quasi da quella corrosa del fratello Gino. Dalla Morte alla Vita, mi dico mentre pongo due piccoli sassi rituali su un altro più largo e piatto che sembra un altare. Lo sollevo per tentare di capire la sostanza del ricordo. L’erba sotto ancora verde testimonia un omaggio recente. Aggiungo due pratoline, un ranuncolo, un po’ di Occhi della Madonna e rifletto: la forma sferica dei ciottoli, il bianco, il giallo e l’azzurro dei fiori compongono un sincretismo religioso che forse gli sarebbe piaciuto. Piccoli gesti, semplici liturgie che simboleggiano la durata affettiva di quanti, come me, affidano a Carlo Michelstaedter i loro pensieri.
Il cimitero ebraico di Valdirose è selvaggiamente bello, con un che di celtico dato dall’erba rigogliosa e incolta, dalle pietre chiazzate di licheni grigio-ocra, affioranti dal suolo o divelte, frantumate o intatte, svettanti talvolta in cuspidi. Un frammento di verde tra nastri di strade e guardrail come una coreografia astratta dove lo sguardo naufraga senza punti di riferimento. Sculture ambientali con qualche installazione ossidata degna di David Smith. Il suono dei motori delle macchine - sfreccianti per un secondo e già lontane - rende aliena la pace schiva del posto. Circondata dal frastuono di un progresso sbilenco, pare difficile chiudersi nella propria mente per travalicare barriere di senso e cercare un contatto. La domanda inevitabile è: può un luogo sacro essere incastonato in materiale vile come la lamiera e l’asfalto? può essere il nucleo di icone che nulla hanno di cultuale e parlano solo di civiltà retorica? Evidentemente sì. Dalla vegetazione intatta dei Primi del Novecento al tracollo attuale di ogni riguardo. Scelgo l’inevitabile adattamento con una punta di malinconia, scacciata subito dalla consapevolezza dell’attimo senza uguali.
L’ultimo rifugio di Carlo Michelstaedter non è più protetto dai due cipressi di specie rara piantati il giorno delle esequie, e cresciuti in modo scomposto, irriverente. Li ha annichiliti un taglio quasi radicale. I tronchi mutili, apparentemente privi di dignità, mimano dei sedili. Mi guardo bene dal toccarli. Gli alberi hanno un’anima da rispettare. Capto ancora la loro energia. Mi siedo a terra, tenendo gli occhi fissi sul muro di cinta proprio perché limita la vista fisica. Dischiudo quella interiore. Così, d’istinto, e per balzi percettivi molto naturali. Dal finito all’infinito, insegna Giacomo Leopardi. Oltre la sua siepe “interminati spazi […], e sovrumani silenzi, e profondissima quiete”. Il muro può ben sostituire una siepe. Luoghi e tempi scaturiscono dagli strati della memoria profonda. Al di là del misero orizzonte si condensano idee, individuali evocazioni. Il riflesso della luce del sole che mi riverbera alle spalle e si smorza nelle crepe delle steli solitarie ha la vastità, l’estensione di un piacere speciale. Nulla di trascendente. Piuttosto un’impressione di matrice sensista che non chiede assolutezze. Mi riapproprio del frutto del suo genio: le Poesie, Il dialogo della salute, acquerelli, oli, disegni, La persuasione e la rettorica, le lettere, gli appunti, le note. Mi scorre nella mente un film virtuale che porta significazioni e tratti. Immagini incalzano: Carlo, Rico (Mreule), Nino (Paternolli) nello splendore della giovinezza, le loro corse sfrenate lungo gli ampi viali della nostra città, lo Staatsgymnasium in Via delle Scuole, le gite e i bagni al fiume, le fughe al San Valentin, le notti sul San Valentin, Carlo a teatro, Carlo al mare, il nuoto, il tennis, la scherma, Sofocle, Ibsen, Beethoven, Schopenhauer, la sorella Paula, Firenze, Nadia Baraden, Jolanda De Blasi, Argia Cassini, la soffitta di Nino, la pistola di Rico. Una ridda di fotogrammi come flash improvvisi mi si affolta dentro. Dietro ogni nome e oggetto altre fisionomie e dettagli. Differenti, eppure parte dello stesso tutto. Il volto di Carlo emerge dall’indistinto, ora radioso ora cupo, in un alternare repentino. È un volto “mezzo tra bello e terribile”, come quello della Natura in dialogo con l’Islandese nell’omonima Operetta morale di Giacomo Leopardi. Suggestioni, queste, giochi d’abbandono corrivo in cui voglio scivolare.
Come sempre quando penso a Carlo Michelstaedter avviene un fatto strano: il tempo scarta e si riavvolge. A livello di coscienza, per intermittenze non uniformi o incatenate in un prima e un dopo, ma sciolte come la parabola dell’iride in un prisma cristallino dalle facce sempre fulgide, se lo vai ruotando. Facce diverse, un unico cuore vibrante. Il passato ritorna, dunque. Così reale da inalare odore di ceri e deglutire salso di lacrime, tra singhiozzi e salmodie. Riarrotolo ancora un poco il filo del recupero, lascio la morte e torno alla vita di Carlo: la sua voce sillaba gli ultimi versi della lirica del 2 agosto 1910, [Alla sorella Paula]: “Lasciami andare, Paula, nella notte / a crearmi la luce da me stesso, / lasciami andar oltre il deserto, al mare / perch’io ti porti il dono luminoso / … molto più che non credi mi sei cara.”
Nel mio qui e ora niente orizzonti metafisici, solo la pietra del cippo funerario davanti a me. Liscia dov’è incisa la scritta con il suo nome. Calda.

Irene Navarra, in Speciale Cultura di Voce Isontina del 29 maggio 2010


(Dall'apparato critico propedeutico allo spettacolo multimediale Omaggio a Carlo Michelstaedter / Di soglia in soglia la Percezione dell'Assoluto, rappresentato al Teatro Incontro di Gorizia il 4 giugno 2010, per il centenario della morte)

Personalità allo specchio:
Carlo Michelstaedter e Ludwig van Beethoven

 
 
Carlo Michelstaedter sentì la musica in modo profondo. Per l’indole sensibilissima e inquieta seppe scendere alle radici dell’entusiasmo che rende l’ascolto un’esperienza unica. Il non conoscere il linguaggio delle sette note, l’arte eterea intuitivamente spalancata sulle regioni altre dell’essere, fu a lui fonte di tormento. Talvolta un’armonia o una discordanza restituiscono il sentimento meglio di mille parole. Nel salotto di Giannotto Bastianelli, ottimo musicista e critico, a partire dal 1907 Carlo ebbe modo di conoscere le potenti creazioni di Beethoven, nutrendosi anche dell’atmosfera vociana che gli amici dell’Ateneo fiorentino - Emilio Cecchi, Scipio Slataper e lo stesso padrone di casa - portavano. Cecchi avrebbe poi parlato - a proposito delle «smusicate» in casa Bastianelli - di «libera cattedra di musica classica». E così fu veramente per il nostro concittadino. Lo apprendiamo dalle sue lettere. Nell’Epistola da Firenze alla sorella Paula, datata 30 maggio 1909, troviamo un inizio dal tono sospeso, sembra un ragionamento sul tema delle bontà assoluta. Ben presto però l’incipit, a metà tra la burla affettuosa e il filosofare leggero, si sfalda in un richiamo alle partiture del grande compositore renano, fatte espressione del suo pensiero: “Se sapessi scriver note e se tu le comprendessi ti scriverei il tema dell’andante della IX Sinfonia: sarebbe più eloquente di me per dire quello che voglio dire; oppure – non ridere! – leggi il Vangelo di San Matteo”. Nell’impulso dei suoi rapimenti elettivi Carlo Michelstaedter riconosce in Beethoven uno spirito affine, insofferente di ogni falsa apparenza, mai prono al dolore, destinato alla solitudine come compagna esistenziale, ma a questa volto solo di necessità. Perché le “comunelle di malvagi” non potessero contaminarlo con la loro “rettorica” fatiscente.
Beethoven sfidò il destino nel Primo tempo della Quinta Sinfonia. E di certo Carlo lo amò per questa concezione sublime del vivere a metà tra il bello e l’orroroso, la sola che può farti trionfare sulle miserie umane, se frutto di esperienza come il bere il tuo vino effimero fino alla feccia.
Beethoven cantò la vita per quanto vittima dei suoi tormenti. LInno alla gioia di Friedrich von Schiller, che è cuore pulsante della Nona Sinfonia da lui musicata in una versione leggermente diversa dall’originale, è la testimonianza di una gioia intesa non certo come semplice abbandono spensierato al piacere epicureo del cogliere l’attimo e i suoi inganni, bensì come conquista di una Morale della responsabilità, da perseguirsi con l’impegno. Per spogliarsi da ogni forma di vizio. La Nona sinfonia è quindi prova sublime di titanismo. Del genere già conosciuto dal Nostro, in particolare attraverso le letture delle Operette morali, de Il ciclo di Aspasia, de La Ginestra di Giacomo Leopardi. Testi fondamentali per la conferma di un virile rapporto con il dolore e con la sua accettazione. Così come, tornando a Beethoven, la Missa solemnis lo è dell’inevitabile: la distruzione dei vincoli prima, la morte poi. E non vi è tutto Michelstaedter in questa lotta al Nulla che minaccia la via del giusto con le lusinghe dell'attaccamento alla vita? In Beethoven egli trova il modello contro le trappole della dissimulazione che ci torce all’inautenticità. Lo pone al fianco di Socrate e Cristo, si fa condurre con ancor più vigore alla filosofia, alla sua separatezza bastevole a sé.
Mi piace immaginare Carlo Michelstaedter mentre contesta a Bastianelli l’esecuzione dell’Eroica al di là della Marcia funebre perché, secondo lui, la Sinfonia finiva con quel movimento ed era inutile procedere nella vivacità del successivo Scherzo. Mi affascina la sua proterva sfrontatezza, la sua tragica determinazione a scegliere il puro Dolore come fonte di eroismo. Attraverso la musica del suo recente maestro egli traguardava l’orizzonte della finitezza umana dai bordi dell’imperfezione che, una volta riconosciuta come esistenziale del Persuaso, può indicare la via dell’Assoluto.

Irene Navarra, in Speciale Cultura di Voce Isontina del 29 maggio 2010


(Dall'apparato critico propedeutico allo spettacolo multimediale Omaggio a Carlo Michelstaedter / Di soglia in soglia la Percezione dell'Assoluto, rappresentato al Teatro Incontro di Gorizia, il 4 giugno 2010, per il centenario della morte)