Margini
Irene Navarra: leopardiana del '900
Irene Navarra è nata e vive a Gorizia, dove insegna Letteratura italiana e latina al Liceo Classico. Nel 1998 ha ottenuto il Premio "Cesare Pavese", organizzato annualmente a Santo Stefano Belbo nella casa natale dello scrittore langarolo morto suicida nell' agosto del 1950.
Ora pubblica, per i tipi di B & V Editori di Gorizia, un corposo volume di versi, intitolato significativamente "Margini".
Dario Bellezza, prematuramente scomparso, soleva dire che il più grande poeta del Novecento è un poeta dell'Ottocento: Giacomo Leopardi.
E, infatti, dobbiamo al Recanatese il superamento delle barriere artificiali tra i generi letterari, che avevano caratterizzato a lungo la produzione poetica in Italia, in costante ritardo rispetto alle aree culturalmente più avanzate del continente europeo.
La poesia di Irene Navarra risente degli effetti benefici del "leopardismo" novecentesco, in quanto poesia nutrita di pensiero, di riflessione filosofica ed esistenziale, e ben lontana dall'aulicità petrarchesca, che, nella felice schematizzazione di Gianfranco Contini, ha rappresentato l'altro filone della letteratura italiana rispetto a quello dantesco, dominato dal "plurilinguismo", sfociante, appunto, in Leopardi. La semplicità dei versi sciolti è studiata, meditata, per nulla improvvisata, quasi a ripetere il miracolo a cui diede vita un conterraneo della poetessa, Umberto Saba, novello «re Mida», capace di trasformare in oro, con le sue "parole senza storia" - com' ebbe a definirle Giacomo Debenedetti -, tutto ciò che sfiorava. Il significato del titolo della raccolta si comprende leggendo alcuni versi- chiave: "Divenuta per necessità / scatola sigillata / ho messo un' etichetta esplicativa: / / "RIFUSI, RIMASUGLI, NONCURANZE". / / Sono ormai parte integrante / del popolo dei margini".
Il richiamo a Leopardi, al suo "pessimismo cosmico", è evidente. La poetessa si sente "anima clandestina” sulla Terra, spinta ai "margini" dall'indifferenza dilagante, che ci rende monadi leibniziane ("Mi arruffo come gatto / caldo di sole, nello spazio / - infinitesimo- tutto mio").
Il mondo esterno è presente in via mediata, soprattutto attraverso i suoi odori, i suoi riverberi di luce filtrati da una bottiglia: "Di vetro verde e spesso, un poco / polverosa, sulla credenza, in alto, / forse dimenticata. / / Si accende di riflessi quando - d'inverno - / il sole entra a fatica dall' angolo della / finestra sul giardino. / / Allora il verde si dilata nel viola di Medea / assassina o nell' oro immobile di paste / per mosaici bizantini. / / Per un momento. / / C'è poi il naufragio della luce. / Fino a qualche altro tramonto / di giusta angolatura".
Ma la poesia di Irene Navarra non può essere inserita nell'ampio arco decadente descritto dalla letteratura italiana, nell' ambito dell'esistenzialismo dozzinale, che da troppo tempo la domina.
La denuncia del "male di vivere" non è egoistica autocommiserazione, è accompagnata dalla consapevolezza del suo essere "male comune", che affratella gli uomini e impone leopardianamente solidarietà. Anche se l' "anima clandestina” subisce la tentazione di volare "come un cormorano / al limite del mondo", estraniandosi dalla realtà, "con i suoi morti / impastati di fango", alla fine prevale l'amore per gli uomini, per i loro limiti terreni.
I versi sono dominati da una religiosità tutt' altro che gnostica, che rivaluta l'aspetto umano del Cristo, il suo farsi uomo per soffrire assieme agli altri, incurante del "volo degli Angeli".
Antonio Catalfamo, America Oggi - New Jersey, 12 gennaio 2003 /
Le colline di Pavese, 17 ottobre 2003
I Margini di Irene Navarra
E' un libro che ha tutti i diritti di cittadinanza nel mondo della poesia e, anche se l'autrice è la prima volta che vede le sue liriche pubblicate, ce ne presenta moltissime, dividendole per sezioni e compiendo un'operazione riassuntiva che, forse, negli anni aveva lasciato perdere. Sì, perché si vede bene che la Navarra ha raggiunto una buona tecnica acquisita nel tempo. Già nel 1998, infatti, aveva ottenuto il “Premio Cesare Pavese” per la poesia inedita, dimostrando pertanto una militanza poetica piuttosto lunga. Ora in Margini raccoglie la sua esperienza di vita in sillogi ben distinte tra loro, leggibili anche in forma poematica per la tensione e lo spirito che le anima, sempre costanti e non discosti da un larvato disagio. Che a volte diventa dramma, a volte annullamento completo dell'essere in un desiderio di dissoluzione, oppure incardinamento nella materia eterna, scomposizione dell'anima, desiderio di risorgere da ipotetiche ceneri.
L'operazione è sempre straziante; le singole liriche spesso si esauriscono in poche righe, iniziano con un afflato discorsivo per poi terminare in modo essenziale o evasivo, lasciando al lettore le conclusioni o dimostrando una disperazione alienante. Talvolta sono oscure e portano una sensazione strana, sembrano allucinate, visionarie, in ogni caso di alto lirismo. L'autrice compie un viaggio, il suo viaggio terreno nella bolgia della vita, e non si sente di aderire a essa, perciò va a ritroso, cercando nella natura una risposta alla sua solitudine. Allora ogni elemento le è fratello, si immerge nelle cose in una sorta di panteismo e il suo corpo diventa un tutt'uno con l'energia cosmica. Così, può cantare la fortezza, la selva, l'isola, la spiaggia, la montagna, la muraglia. Ecco, la muraglia, che è ben lontana dalla muraglia di Montale: qui non ci sono cocci di bottiglia e l'impossibilità, quindi, di andare al di là e di capire cosa c'è oltre, ma la mancanza di volontà del singolo: la muraglia non è che un'illusione cancellata - dice l'autrice - e basta aver la voglia di superarla per giungere al limite del viaggio. Limite e viaggio sono dunque due parole che la Navarra usa spesso, due parole-chiave che spiegano anche il titolo scelto per il libro: lei si sente al margine e perciò il suo viaggio si fa più teso e teme il limite che ottunde tutte le sue speranze con l'additarle - malgrado le sue perplessità - un domani. La morte, anche se raramente nominata, è sempre in agguato, anzi diventa l'anima di ogni suo processo creativo. Èquell'annientamento che si palesa di continuo, quel senso di nullificazione che abbraccia le cose più che le persone e che permette la rigenerazione futura. Soltanto nelle poesie dedicate a Virginia, un’amica scomparsa in giovane età, si coglie il senso effettivo della perdita, la sofferenza per una morte prematura, l’inganno della sorte, l'illusione che non serve, anzi si trasforma in amaro sconforto. Solo allora la Navarra si scioglie e il suo dolore non è più sterile, ma vive concreto nel dramma dell'ora, lontano da qualsiasi personale disagio esistenziale. E la disperazione diventa voglia di continuare il viaggio per capire la parabola umana.
Così, l'ultima sezione (dal silenzio) - dedicata a Ines Ritossa di Parenzo per la perdita del marito infoibato a Vines nel 1943 - è un nucleo di dolore e di partecipazione, senza voler essere un documento storico o dichiarare una coloritura politica.
Ma ciò che mette in luce la poetica di Irene Navarra è soprattutto la cifra simbolica che rende il suo mondo lirico emozionante e suggestivo. Intensa è infatti ogni analogia che, in quanto oscura, impone al fruitore una lettura e comprensione attente, perspicaci. Nell'analogia, che poi fa la vera poesia inoltrandosi in ogni zona del ritmo e rendendo musicale il verso, la Navarra opera il suo viaggio terribile, mostruoso, patibolare, eppure di purificazione. Un viaggio - bisogna ripeterlo - per capire l'essenza del proprio corpo e sacrificarvisi, per entrare nelle cose ed essere parte di esse. Non importa che lei sia talvolta beffarda o cinica o ironica; tutto viene messo in conto e sedimentato dal dolore, tutto esprime quel senso di solitudine che è il succo delle sue poesie assieme al desiderio di restare sempre in basso: poiché " Da sopra l'infinito / può stroncarti".
Mariuccia Coretti, Il banco di lettura (Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione),
2003 – 2004
QUANDO IL RICORDO SI FA STORIA
Tra percezione individuale e memoria collettiva degli eventi
Il vento delle case in fiamme
Portava neri aquiloni…
La gente in corsa sulle giostre
Acchiappava i fiocchi nell’aria.
Gonfiava le gonne alle ragazze
Quel vento dalle case in fiamme,
Rideva allegra la folla.
C. Milosz, Campo di fiori, in Poesie, Adelphi 1983
il mare dalla voce stridula
culla le bare
sotto il portico del Municipio
(Parenzo
28 ottobre del ’43)
Irene Navarra, dal silenzio (a Ines Ritossa) in Margini, B &V Editori 2002
La visione romantica di una Storia/maestra di vita - da scrivere rigorosamente con la S maiuscola per distinguerla da quella comune di tutti e ognuno - era ancora in auge quando, ormai più di quarant’anni fa, cominciai la scuola. Purtroppo però, a volte ho l’impressione di coglierla ancora qua e là, occhieggiante in mezzo alle righe di saccenti pseudo storici, tra un bagliore di sfida neanche troppo celato e il rimpianto – che storia non è – tra la rabbia per i torti subiti e il risentimento verso chi, quei torti, li ha imposti. O nell’arroganza di coloro i quali, sentendosi depositari della memoria collettiva, si fanno prepotentemente portatori di Verità Storiche sventolate come bandiere. March Bloch amava ripetere che "quando uno studioso ha osservato e spiegato&qut; ha esaurito il suo compito. Ma vero è che lo storico fa egli stesso parte della Storia: ne sente le pressioni, avverte gli urti, le accelerazioni e i rallentamenti di chi lo segue e di chi lo precede nel corteo1. Risente inevitabilmente dei sentimenti, delle emozioni, degli interessi suoi e della società in cui vive. Egli quindi non potrà mai essere imparziale e oggettivo come si pretende da lui. Osservava a proposito il Croce: «Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di "storia contemporanea", perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni» (Benedetto Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1938, p. 5). Gli fa eco Le Goff, nel 1977, quando sottolinea la discrepanza tra memoria e storia niente affatto sinonimi. E solo qualche anno più tardi Pierre Nora afferma che, se la prima colloca il ricordo in un ambito sacro, la seconda lo rende prosaico e fruibile in modo corretto2. Jacob Sloan, nella sua premessa a Sepolti a Varsavia (appunti dal ghetto di Emmanuel Ringelblum, Mondadori, Milano 1962) definisce le memorie rinvenute dopo la Seconda Guerra Mondiale semplicemente “specchio dei sentimenti e dei pensieri dei loro autori”. Nei diari, infatti, di moda tra Varsavia e i suoi dintorni durante l’Occupazione, la procedura scrittoria muove dal microcosmo individuale per approdare solo in un secondo tempo al macrocosmo sociale. Questo modo di operare è sintomatico di un’umanità ferita che non è in grado – per la portata degli eventi e per quanto essi incidono nel quotidiano – di trascendere la sofferenza personale. Il racconto, quindi, non può essere impersonale poiché lo stimolo giunge dal silenzio carico di orrore cui sono costretti gli autori, pur nelle differenze soggettive del sentire. Lo sapeva bene Primo Levi che, a proposito del suo celeberrimo I sommersi e i salvati, mette in guardia i lettori persino dal sé scrittore e dall’uso che egli fa della memoria. Il libro, infatti: “Attinge dunque a una fonte sospetta, e deve essere difeso contro se stesso”.
Oggi il dibattito si è spostato sul piano della crisi che alcune ricorrenze starebbero subendo, in primis il giorno della Memoria. A metterci in guardia da una sua strumentalizzazione pericolosa lo storico sociale delle idee David Bidussa. Nel suo libro Dopo l’ultimo testimone (Einaudi, Torino 2009) egli individua tre livelli di criticità: il primo riguarda la trasmissione della conoscenza del genocidio ebraico delegata ai testimoni diretti; il secondo investe la prevalenza del dovere della memoria rispetto alla dimensione della conoscenza critica storica; il terzo e ultimo fa riferimento al rapporto squilibrato originato da questo scontro a causa del quale si rischia un rovesciamento tra memoria e storia. La conseguenza sarebbe “la messa in questione della memoria stessa e delle voci testimoniali come suoi supporti essenziali”. Non si pone, invece, alcun interrogativo sul che fare delle testimonianze, una volta scomparsi i superstiti, un’altra dolorosa pagina di storia nostrana che di sopravvissuti non conserva traccia. Non c’è memoria diretta a tenere in vita uomini e donne gettati vivi nelle foibe carsiche, ma solo il ricordo di chi li ha amati: “dice la storia / il risentimento è grasso / per la barbarie cieca / contro la civiltà //dice anche la storia / è la difesa contro / l’aggressione / al debole / ansia di libertà // dice il pensiero / è rabbia atavica la libertà / che nasce dal risentimento e / da una forra tappezzata / di tributi umani simili / a scorie rigettate (Irene Navarra, dal silenzio (a Ines Ritossa), in Margini, B&V Editori, Gorizia, 2002,p. 171). Quando a narrare i fatti è la poesia, quando la storia si muta in canto,allora il pensiero, non più memoria/storia, si sposta verso un ambito intimo - pertinente alla sfera dei sentimenti e delle emozioni -, diventa parola sofferta, scabra e priva di sentimentalismo. Parola che sale dal silenzio dei morti amati (Per Virginia) o da quelli senza volto e senza voce. Parola originata dal nulla che accomuna chi non vive più e diviene epica in Margini. Non di gesta risuonano i versi di queste liriche, non di imprese eroiche umane o divine. Di uomini e donne che furono, ciascuno con la propria vita, e divennero ombre (vorrebbero le Ombre / che si capisse questo // il salto nell’inghiottitoio / il coltello dei costoni / viscido muschio / acqua persa / al fondo // tutta storia violenta // retorica soltanto // se il rampino della/Verità non lacera/i bavagli. Di “un cammino perseguito con tutta la forza dello spirito e dell’immaginazione, il tentativo di ricomporre in unità le tensioni dell’anima e della mente, attraverso la memoria personale” (Irene Navarra, Introduzione, in Margini p.5). Di impotente e lucida consapevolezza dei limiti umani “marginalità dell’essere e del sentire” (ibidem). Di una solitudine prima imposta poi fortemente cercata/voluta (Il fluire dell’argento e Ultra limina) perché pretesto d’indagine entro “il sentimento esistenziale della morte” (ibidem, p. 6). Di un’anima divisa tra luce e buio in cerca di un perché tra storia e memoria: “Di noi due posso dire / solo questo: siamo la scena / aperta dello stesso teatro. // Ma Lei – l’anima sorella / clandestina – può vivere/ nel pieno della luce. Io / recito invece offuscata / da un sipario. / Sperando che / mi chiami ai suoi applausi. O che / ritorni – almeno per un po’ – al / mio velluto.” (L’anima clandestina in Margini, p.102). L’anima storica scandaglia i fatti, l’anima spirituale, operando una sorta di distacco, ascolta le voci dolenti di quanti, inghiottiti dalla terra, anelano a essere ricordati ancora, almeno dalle parole. Per trentatré notti – trentatré come gli anni di Cristo, specifica l’autrice - l’anima clandestina raccoglie in sé i pensieri degli ultimi istanti, i guizzi di vita in fuga dai corpi martoriati, per ricongiungersi, infine, con l’altra parte di sé. Anche il poeta può, dunque, avventurarsi lungo i percorsi umani e farsi storico dell’anima poiché “fra le Anime c’è / la ricorrenza siderale / della Memoria-Non memoria /[…]” mentre “gli storici aprono gli archivi / leggono analizzano comparano / contano sulle dita forniscono le cifre // alla chiarezza del lettore/[…]”. Ma che cosa giunge all’uomo comune di tutto ciò che il ricordo individuale serba, la memoria collettiva preserva e la Storia conserva? È proprio la Storia a mostrarci con chiarezza come nulla di quanto accada sia memento per non ripetere i medesimi errori. Ma tutto può fungere da monito perché «Uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un uomo» (Sebastian Castellion, Contro il libello di Calvino, Torino 1964). Sofocle aveva ben compreso tutto ciò tanto da lasciare in eredità quei primi due versi del Primo stàsimo dell’Antigone in cui fa dire al Coro che la vita ha forze tremende (accolgo qui la lezione del Lombardo Radice il quale traduce deinà – thàumata in greco moderno - con il senso del portentoso contenuto in mirabilia), ma nulla è più tremendo dell’uomo.
1 Per il concetto di “corteo della storia” si veda E. H. Carr Sei lezioni sulla storia, Einaudi, Torino 1966, p. 41.
2 «Memoria e storia non sono affatto sinonimi, tutto le oppone. La memoria è sempre in evoluzione, soggetta a tutte le utilizzazioni e manipolazioni; la storia è la ricostruzione, sempre problematica e incompleta, di ciò che non c'è più. Carica di sentimenti e di magia, la memoria si nutre di ricordi sfumati; la storia, in quanto operazione intellettuale e laicizzante, richiede analisi e discorso critico. La memoria colloca il ricordo nell'ambito del sacro, la storia lo stana e lo rende prosaico» (Pierre Nora, Entre Mémoire et Historie, Gallimard, Paris 1984).
Alessandra Rea, Quaderni di critica, in Voce Isontina, 13 febbraio 2010